XII.  Sociologia


Prima di prendere in considerazione i lavori sociologici di Freud, sarà bene parlare, anche se incompletamente, di ciò che si sa sul suo atteggiamento personale verso i suoi consimili. Non v'è dubbio che su tale atteggiamento abbiano influito in modo determinante le tristi esperienze dell'infanzia e dell'adolescenza. È sempre difficile sopportare le angustie della povertà, ma per un ragazzo orgoglioso e sensibile come lui dev'esser stato un onere veramente doloroso. Freud dovette superare il traumatizzante contrasto venutosi a creare tra la stima con cui veniva considerato in famiglia, dove si riponevano in lui grandi speranze, e la modesta posizione in cui veniva invece a trovarsi nel mondo esterno. Probabilmente era ipersensibile agli sgarbi da parte di compagni appartenenti a un livello sociale più elevato: in seguito, infatti, prese ogni precauzione onde assicurarsi che i suoi figli non dovessero soffrire in questo senso. In un passo scritto nella vecchiaia, riferendosi senza dubbio alla propria esperienza Freud dice: «Chiunque in giovinezza ha attraversato le angustie della povertà e sopportato l'indifferenza e l'arroganza di chi invece possiede beni di fortuna, dovrebbe andare esente da ogni sospetto di incomprensione o malevolenza per gli sforzi fatti per combattere la ineguaglianza economica tra gli uomini e per quello a cui tali sforzi possono condurre.»

Alcune lettere tuttora inedite che risalgono alla sua pubertà, lasciano pensare che Freud reagisse a questo stato di cose con un'affermazione arrogante e sprezzante della propria superiorità: scriveva come se avesse appartenuto a un'aristocrazia intellettuale e l'istruzione lo autorizzasse a disprezzare la massa. Divenuto adulto, questo sprezzo svanì e questo atteggiamento denigratorio si estrinsecò in termini morali invece che intellettuali. Un anno dopo essersi fidanzato scrisse alla futura sposa una lettera rivela-

trice, precedentemente citata, nella quale sostiene che quanto più si è civili e raffinati, tanto maggiormente si tende ad evitare il dolore piuttosto che cercare il piacere. Giunse a credere che questa fosse una caratteristica generale della civiltà e che l'effetto di quest'ultima sia quindi quello di diminuire le gioie della vita.

In un manoscritto che accompagnava una lettera a Fliess (31 maggio 1897) Freud propone questa formula: «La civiltà consiste in una progressiva rinuncia. Al contrario del superuomo», che diventa un tema centrale dei suoi successivi scritti di sociologia; formula che risale probabilmente alla sua gioventù, quando profondi motivi interiori lo costringevano a rinunciare al piacere (sessuale) personale, e ragioni economiche lo forzavano a rinunciare ad altri godimenti con il compenso di realizzare invece uno sviluppo e interessi di ordine intellettuale.

Negli anni della maturità l'atteggiamento personale di Freud nei confronti del singolo individuo presenta uno strano contrasto con il suo giudizio impersonale sulla collettività umana. Nel primo si esprimono l'ottimismo e la benevolenza propri alla sua natura. A meno che non avesse in precedenza buone ragioni per agire diversamente, Freud era solito accogliere lo sconosciuto come se si trattasse di persona gradevole e ammodo, atteggiamento che gli procurò più di una delusione. Ma quando parlava della gente in generale, emetteva giudizi assai più severi: salvo rare eccezioni, la gente era per lui una canaglia che offre poco di buono.4 Non si discostava molto dal vero quando sotto questo aspetto si descriveva a Pfister «un allegro pessimista».

Negli anni successivi Freud dichiarò più di una volta che i suoi interessi erano tornati, attraverso il circuito della medicina e della psicopatologia, al suo primo amore: la filosofia. E con questo credo che volesse dare alla parola il suo senso originario di conoscenza in generale piuttosto che quello attuale, più ristretto, tecnico e accademico, che sembra non lo interessasse mai. A sostegno di questa mia affermazione v'è un'osservazione nella sua Autobiografia: «Anche quando mi sono allontanato dall'osservazione ho accuratamente evitato ogni contatto con la filosofia vera e propria, compito che mi è stato molto facilitato da una mia incapacità costituzionale.» In un poscritto aggiunto al medesimo libro a 79 anni, così ripete questo stesso pensiero: «Il mio interesse, dopo una lunga deviazione, durata tutta la vita, attraverso le scienze naturali, la medicina e la psicoterapia, è tornato ai problemi culturali che mi affascinavano molto tempo fa, quand'ero un giovanetto appena in grado di pensare.» Presumibilmente con le parole «problemi culturali» intende il significato e l'origine della civiltà, le condizioni della vita comunitaria e i rapporti tra uomo e società.

È stato rimproverato a Freud, del tutto ingiustificatamente, di aver trascurato gli aspetti sociali della vita dei suoi pazienti. Fin dal 1905, nel primo caso clinico da lui pubblicato, Freud scrive: «Dalla natura dei fatti costituenti il materiale analitico, segue che nelle nostre storie cliniche siamo costretti a prestare altrettanta attenzione alle circostanze puramente umane e sociali dei nostri pazienti di quanta ne prestiamo ai dati somatici e ai sintomi della malattia.» Le sue conclusioni si basavano in realtà sulla psicologia dell'individuo, ma nessuno meglio di Freud ci ha insegnato che ogni aspetto della psicologia individuale appartiene in effetti alla psicologia sociale. E come dimostrano i suoi successivi scritti, ci si puà interessare a fondo di problemi di sociologia senza dover per questo partecipare al tumulto della lotta politica.

Passiamo ora ai contributi pubblicati da Freud in questo campo. Il suo primo lavoro di sociologia risale al 1908 e si intitola La morale sessuale della civiltà e il nervosismo moderno}' Esso rappresenta una critica spietata degli attuali costumi sessuali e dell'idea che la monogamia possa attenuarne i difetti. Freud è evidentemente favorevole a mutamenti rivoluzionari in questa sfera, pur non considerandosi competente a specificarne i dettagli. Le sue perplessità si concentrano sul problema se le restrizioni sociali nella sfera sessuale, che in passato hanno risparmiato tante energie ai fini della civiltà, non stiano ora raggiungendo i loro limiti in tal senso e in effetti ostacolando il raggiungimento di tale fine grazie alla massa di inefficienza nevrotica da esse stesse prodotta. Pochi anni dopo (nel 1912) Freud pensò persino che ulteriori restrizioni avrebbero potuto in ultima analisi mettere in pericolo l'esistenza stessa della razza umana;fosca possibilità che intravvide di nuovo anni dopo nel corso della sua corrispondenza con Einstein.

Il 10 marzo 1909 Adler lesse davanti alla Società di Psicoanalisi di Vienna un lavoro su La psicologia del marxismo, e gli atti della Società, che vertanno pubblicati fra breve, riportano anche la discussione seguita. Freud non ebbe molto da dire sul tema della relazione, ma osservò che essa aveva stimolato in lui una catena di pensieri sulle origini della civiltà. Vi sono due elementi in queste origini: il graduale ampliamento della coscienza umana e il continuo aumento della repressione; «la nostra civiltà consiste in una sottomissione sempre maggiore dei nostri istinti alla rimozione». La contraddizione tra questi due elementi è solo apparente: l'ampliamento della coscienza, cioè degli interessi e delle capacità, è stata acquisita a spese degli impulsi più primitivi che vanno incontro a rimozione, conclusione che Freud non abbandonò mai.

Nel corso della stessa discussione Freud avanzò un'ipotesi che sviluppò in seguito sotto altra forma. A quell'epoca egli era ancora impegnato nel tentativo di individuare i vari impulsi sessuali e il loro destino: non aveva ancora trovato la via per studiare l'altra parte della psiche, che molti anni dopo lo avrebbe condotto alla sua psicologia dell'Io. In questo caso, proseguendo nell'analogia con le proprie scoperte nel campo della psicopatologia, esprimeva il parere che il migliore accesso alla psicologia dell'Io sta nell'indagine dei mali sociali.

Il libro Totem e tabù del 1914, sul quale ci siamo soffermati più di una volta nel corso di questa biografia, può giustamente considerarsi, grazie allo studio in esso contenuto sulle origini della vita comunitaria, un'opera sia di sociologia che di antropologia. Nel saggio Sul narcisismo, pubblicato in quello stesso anno, Freud estende le sue considerazioni circa questo fenomeno squisitamente individuale a fatti di portata sociale. Fa notare ad esempio che quell'entità psichica che chiama «ideale dell'Io», ha un significato che trascende quello strettamente personale. Esso può divenire il comune ideale di famiglia, di classe, di nazione, e contiene sia una componente omosessuale che una narcisistica: quando la mancata realizzazione di tale ideale genera una delusione, questa libido omosessuale si trasforma in (o provoca) un senso di colpa e di angoscia sociale; allora il timore originario della disapprovazione dei genitori si converte nel timore dell'opinione pubblica. In seguito Freud sviluppò ampiamente queste sue affermazioni estremamente schematiche, ma noi le riportiamo qui onde mostrare come la catena di pensieri che sta alla loro origine tenesse occupato Freud assai prima di quanto si sia talvolta supposto.

Nella maturità e in parte anche dopo, la sua concezione della società si concentra sulla difficoltà incontrata dall'uomo nel realizzare senza sforzo le rinunce che da lui si richiedono, e la sua domanda di aiuto nell'assolvimento di tale compito. Negli «Aspetti futuri della terapia psicoanalitica», letto al Congresso del 1910, Freud fa questa notevole osservazione: «Non esagererete mai nel valutare il grado di instabilità interna dell'uomo e la sua conseguente brama di autorità.»1'1 Ma fu solo dopo la guerra mondiale, cioè nel suo ultimo periodo, che Freud si dedicò a fondo ai «problemi culturali» che lo avevano affascinato da giovane.

In Al di là del principio del piacere, scritto nel 1919, con il quale Freud inaugura il suo rimaneggiamento della psicoanalisi, cogliamo un'espressione di incredulità nell'esistenza di un qualsiasi impulso alla perfettibilità nel genere umano. Ciò che sembra tale, può spiegarsi su una base puramente psicologica, senza ricorrere alla filosofia.

Nel suo libro Psicologìa di gruppo e analisi dell'Io, pubblicato nel 1921, Freud espone due idee fondamentali che corrispondono rispettivamente alle due parti del titolo. Discute dapprima molto a fondo la natura dei legami che uniscono i membri di un gruppo, sia temporaneo come una folla, sia un'istituzione più durevole come una chiesa, un esercito o una nazione. Secondo Freud essi non si possono spiegare come derivanti semplicemente da interessi comuni in senso utilitaristico, ma che devono piuttosto entrare in gioco fattori emotivi più complessi; non si può ammettere come unica spiegazione il senso di sicurezza che nasce dall'appartenere a un gruppo, e la paura di staccarsi dagli altri suoi membri. Freud descrive poi alquanto estesamente le differenze generalmente ammesse tra il comportamento dell'individuo nella sua vita privata e quando invece funge da membro di un gruppo. In questo secondo caso l'individuo mostra delle caratteristiche particolari: la sua irrazionalità, la sua intolleranza, il tipo di ragionamento illogico e il peggioramento del suo livello morale e del suo comportamento fanno fortemente pensare ad un ritorno a un livello più primitivo.

È chiaro che qualcosa, in questo misterioso legame, limita nell'individuo la libertà di pensiero e di giudizio. A questo punto Freud si sofferma sull'analogia con l'ipnotismo, e dopo aver discusso in generale il problema della suggestione giunge alla conclusione che il fattore emotivo che agisce nei gruppi dev'essere in ultima analisi della stessa natura che nell'ipnotismo, e cioè una libido con il fine inibito, tale quale compare nel primo esempio di formazione di gruppo, quello della famiglia. Dimostra poi come tutte le caratteristiche della psicologia di gruppo possono considerarsi come un'estensione (al gruppo) della situazione familiare originaria. La parte più originale del lavoro rimane comunque quella in cui Freud sottolinea l'importanza del ruolo del capo (o del concetto ideologico che ne assume la funzione): i legami che uniscono i membri di un gruppo e la mutua identificazione di questi ultimi dipendono essenzialmente dal loro comune legame con il capo.

L'esposizione è intessuta, come tutti gli scritti di Freud, di fertili idee. Egli osserva ad esempio di aver sempre ritenuto che l'angoscia sociale -cioè la paura dell'opinione pubblica - costituisca l'essenza della coscienza, e sostiene che il bisogno di uguaglianza (caratteristico di questa nostra epoca post-bellica) rappresenta la radice della nostra coscienza sociale e del nostro senso del dovere. L'anelito a una giustizia sociale che s'accompagna in genere a una richiesta di uguaglianza e parità di trattamento, nasce da una reazione all'invidia, e se ne possono individuare le origini fin dai primi anni di vita, nell'atteggiamento reciproco dei bambini per ciò che riguarda l'affetto dei genitori.

Freud va anche oltre, nella sua analisi, e paragona la psicologia del gruppo non solo a quella della famiglia, ma anche a quella dell'orda primordiale, di cui aveva postulato l'esistenza in Totem e tabù, e nella quale operano gli stessi agenti: coscienza, senso di colpa, paura e legami libidici tra i membri.

Freud non condivide la comune credenza che il panico sciolga i legami che tengono unito il gruppo, anzi inverte l'ordine degli avvenimenti, ammettendo che là dove i legami sono deboli e sorge un pericolo grave, come un incendio in un teatro, è proprio il pericolo la causa che genera il tumulto caotico ed egoistico. Nei gruppi più organizzati invece, come i soldati in battaglia, se la disciplina e il senso di cameratismo sono stati precedentemente minati, il panico può far seguito a un pericolo relativamente limitato, minore comunque di quanti non ne siano stati affrontati in altre occasioni. Freud porta come esempio il collasso dell'esercito tedesco alla fine della prima guerra mondiale, quando il corso degli avvenimenti scosse la fede nella causa comune e nei capi.

Freud è del parere che le donne rappresentano in complesso un ostacolo I al processo culturale, o meglio che esse avversano le prestazioni che tale processo impone ai maschi, come ad esempio quella di sottrarre alle donne gran parte dell'amore e dell'attenzione che altrimenti i maschi dedicherebbero ad esse e alla famiglia.

Nella seconda parte del libro troviamo le nuove idee sulla psicologia dell'Io, che Freud esporrà più a fondo un paio d'anni dopo nel libro L'Io e l'Es. Nel lavoro in questione Freud sostiene con insistenza che l'ideale proposto dal capo deve corrispondere strettamente all'ideale dell'Io dei suoi  seguaci.   L'oscillare   dei   rapporti   tra  Io   e   ideale   dell'Io,   generato dalle restrizioni che quest'ultimo impone all'Io, spiega le varie instabilità e i mutamenti che si osservano nella vita dei gruppi.

Circa dieci anni dopo, in Il disagio nella civiltà, Freud espone per esteso le proprie vedute nel campo della sociologia che, come afferma altrove, «altro non può essere che psicologia applicata». Il libro è più facile a gustarsi che a riassumersi: scritto in tono familiare, Freud segue in esso le varie direzioni prese dal corso dei suoi pensieri, seminando lungo il cammino perle di saggezza; anche le considerazioni meno originali sono espresse nel suo stile inimitabile.

Il libro inizia affrontando il problema più generico possibile: le relazioni dell'uomo con l'universo. Il suo amico Romain Rolland gli aveva descritto un'emozione mistica di identificazione con l'universo, che Freud definisce «sentimento oceanico»: egli non riesce però a credere che si tratti di un costituente primario della psiche, e lo fa risalire piuttosto ai primi stadi dell'infanzia, quando non vien fatta distinzione tra se stessi e il mondo esterno. Freud si pone poi il problema dello scopo della vita, interrogativo che ossessiona tante persone; secondo lui esso non ha nessun significato in senso stretto, poiché si basa su premesse ingiustificate: questo problema -fa notare - non sorge che molto raramente nel mondo animale. Passa quindi a un problema più limitato, e cioè quale fine rivela il comportamento umano. Secondo Freud si tratta senza dubbio alcuno della ricerca della felicità, ma è chiaro che egli si serve del termine in senso lato, includendovi non solo la felicità in senso stretto, ma anche la gioia, il piacere, la tranquillità psichica e la sazietà, cioè la soddisfazione di tutti i desideri. La vita è dominata dal principio del piacere-dolore. Nella sua forma più concisa, questo si manifesta come episodio momentaneo; il principio del piacere si realizza in forma continuativa solo come una modesta sazietà. La felicità umana non sembra perciò costituire lo scopo dell'universo, le possibili cause di infelicità essendo assai più probabili. Queste ultime sono tre: la sofferenza fisica, i pericoli del mondo esterno e le difficoltà nei rapporti con il prossimo (che sono forse le più dolorose). Segue un'esposizione dettagliata, dei vari metodi escogitati dall'uomo per raggiungere la felicità ed evitare l'infelicità: esposizione interessante, con molti saggi commenti, che però contiene poco di veramente nuovo.

Freud passa poi all'argomento dei rapporti sociali, che costituiscono l'inizio della civiltà. Questa si è realizzata in seguito alla scoperta che un gruppo di uomini che pongono dei limiti alle proprie soddisfazioni, è più forte di un uomo solo per quanto forte, abituato a soddisfare illimitatamente i propri impulsi. «La forza di questo corpo unificato si contrappone come "diritto" alla forza del singolo individuo, che viene condannato come "forza bruta". La sostituzione del potere di una comunità a quello di un uomo solo, rappresenta il passo decisivo verso la civiltà. Tutto questo si basa sul fatto che i membri della comunità hanno limitato le proprie possibilità di gratificazione, mentre l'individuo non riconosce tali restrizioni. Il primo requisito di una civiltà è perciò la giustizia, ossia l'assicurazione che la legge una volta stabilita non verrà infranta a favore di un individuo.»

La situazione porta inevitabilmente a un eterno conflitto tra l'individuo che reclama la libertà di procurarsi delle soddisfazioni personali, e la società, le cui imposizioni sono invece così spesso in contrasto con questo suo desiderio. Freud discute poi una questione vitale per il futuro della civiltà, e cioè se tale conflitto è o non è inconciliabile. A questo proposito sottopone al lettore l'elenco impressionante delle restrizioni imposte alia vita sessuale dell'uomo: divieto dell'auto-erotismo, degli impulsi pregenitali, dell'incesto e delle perversioni; limitazione ad un sesso ed infine ad una compagna. Da un punto di vista filogenetico Freud insiste specialmente sulla rimozione precoce dell'erotismo anale, cui consegue la acquisizione della pulizia e dell'ordine, componenti fondamentali della società. «La vita sessuale dell'uomo è seriamente compromessa: talvolta dà l'impressione di una funzione in via di atrofizzazione.»18 Tali restrizioni esigono oltre tutto un gravoso riscatto sotto forma di un diffondersi delle nevrosi, delle sofferenze che queste comportano e della conseguente riduzione di energia ai fini del processo culturale.

Perché una comunità civile non può consistere in coppie di individui felici legate ad altre coppie esclusivamente da interessi comuni? Perché questa comunità deve contare anche sull'energia derivata da una libido inibita? Freud trova una risposta nel considerare il precetto «amerai il prossimo tuo come te stesso» non soio inattuabile ma sotto molti aspetti inauspicabile. La società richiede tanto, perché l'uomo alberga un forte istinto di crudele aggressività, per confermare il quale non occorre risalire fino a Gengis Khan. «La società civile minaccia perennemente di disintegrarsi per questa primitiva ostilità tra i singoli uomini... La cultura deve invocare ogni possibile rinforzo onde erigere barriere contro gli istinti aggressivi dell'uomo.»'" Questa tendenza all'aggressività, che secondo Freud rappresenta il più potente ostacolo alla civiltà, è «una disposizione innata, indipendente, istintiva dell'uomo».

Il modo più caratteristico di affrontare il problema dell'aggressività è quello di interiorizzarla in .quella parte dell'Io chiamata super-Io o coscienza. La coscienza esercita nei confronti dell'Io quella stessa rude aggressività che l'Io vorrebbe esercitare contro gli altri. La tensione tra Io e super-Io costituisce quello che chiamiamo senso di colpa. Il senso di colpa non trae origine da un senso innato del peccato, ma dalla paura di perdere l'amore: nella vita dell'adulto può definirsi «angoscia sociale», timore dell'opinione pubblica. Molte persone sono pronte a compiere atti «cattivi» finché son sicure di non essere scoperte, ma quando il super-Io si è solidamente instaurato, il timore di una sua disapprovazione è più forte del timore di una disapprovazione altrui. La semplice rinuncia ad un atto proibito non basta più ad assolvere la coscienza, come ben sanno i santi, poiché ne sussiste il desiderio. Al contrario, la privazione e ancor più la sventura intensificano il senso di colpa, poiché esse vengono percepite come un castigo meritato («ceneri e saio» era l'antico modo di reagire alla sventura). A questo punto Freud avanza un'idea nuova, e cioè che il senso di colpa è la reazione specifica all'aggressività rimossa. Siccome esso è in gran parte inconscio, si esprime esteriormente come un senso di disagio, di generale insoddisfazione e infelicità.

L'assunto principale del libro può esprimersi, con le parole dello stesso Freud, come «l'intenzione di presentare il senso di colpa come il problema più importante nell'evoluzione della cultura, e di far capire che nel processo di civilizzazione il progresso viene pagato a prezzo di una perdita della felicità in seguito a un accresciuto senso di colpa».

I contributi di Freud alla sociologia furono accolti con maggióre benevolenza di quelli antropologici. Fin dal 28 dicembre 1920, la Società Americana di Sociologia tenne una seduta plenaria speciale «Sul significato sociologico della psicologia psicoanalitica», nella quale vennero lette ben sei relazioni. Pochi anni dopo il famoso antropologo W. H. R. Rivers diceva che «se le vedute di Freud possono applicarsi alla psicologia sociale, esse spiegano ampiamente il fiasco di coloro che hanno cercato di apprendere le fonti del comportamento sociale attraverso un'indagine diretta».

E'  interessante ricercare gli eventuali accenni  di  Freud circa  il  futuro della civiltà e le sue vedute sui rimedi suggeriti per le deficienze della stessa.

Conoscendo la complessità della natura umana, Freud non può non manifestare un certo scetticismo circa le utopistiche prospettive delle panacee che ci vengono offerte, soprattutto delle due principali: religione e comunismo. Molto ha da dire sull'etica, «questo sforzo terapeutico che concerne soprattutto il punto che è facile indicare come il più doloroso di ogni schema di civiltà». Nel suo tentativo di elevare il livello del super-Io sociale, l'etica mira però spesso a qualcosa di inattuabile. «Il precetto di amare il prossimo come noi stessi è la difesa più forte che ci sia. contro l'aggressività umana e rappresenta un esempio superlativo dell'atteggiamento antipsicologico del super-Io culturale, è impossibile adempiere tale precetto; una così enorme inflazione d'amore non può che sminuirne il valore senza porre rimedio al male... Che ostacolo insormontabile dev'essere per la civiltà l'aggressività, se le difese adottate contro di essa provocano altrettanto danno dell'aggressività medesima!» Spesso l'etica si intreccia alla religione, e quanto alla promessa di una ricompensa in una vita migliore oltre la tomba, Freud osserva caustico: «Io penso che finché la virtù non verrà ricompensata in terra, l'etica predicherà invano», e aggiunge: «Mi pare fuori di dubbio che un mutamento effettivo dell'atteggiamento dell'uomo nei confronti della proprietà sarebbe in questo senso di maggior giovamento di qualsiasi precetto etico; ma tra i socialisti questa proposta passa in secondo piano davanti a nuove aspirazioni idealistiche che non tengono conto della natura umana e che astraggono dal valore che essa riveste in pratica.» Freud fu sempre del parere che le illusioni possono avere tutt'al più effetti palliativi, e che spesso esse provocano tanto male quanto bene. Freud avrebbe senz'altro messo la firma a quel detto attribuito a Socrate: «Prima cerca la verità, perché solo sapendo cosa è il bene potrai fare ciò che è bene.»

Il suo atteggiamento nei confronti della moderna ideologia marxista non è più incoraggiante. Da vero umanista detestava la violenza e la crudeltà che sembrano dover accompagnare questa dottrina, e da vero realista nutriva una profonda sfiducia per gli aspetti idealistici di essa. Le due cose ben si esprimevano nella osservazione che fece a me e che ho precedentemente citata. Quando Mussolini salì al potere, accusarono Freud di non essere né rosso né nero, né fascista né socialista; rispose: «Bisognerebbe essere del colore della carne.» Imre Hermann si domandava recentemente perché Freud fosse rivoluzionario nel campo della psicologia e antirivoluzionario in quello politico; e rispondeva sostenendo che l'atteggiamento politico di Freud derivava da John Stuart Mill, di cui Freud aveva tradotto alcuni scritti quand'era ancora studente. Effettivamente le vedute dei due uomini avevano molto in comune, ma Freud non era tipo da appropriarsi delle idee di un altro senza prima averle ponderate. Le premesse di Hermann sono oltre tutto inesatte: Freud era altrettanto rivoluzionario nel campo della sociologia che in quello della psicologia: sarebbe difficile pensare a qualcuno che lo fosse più di lui; ma proprio per questa ragione diffidava delle soluzioni semplici e secondo lui superficiali.

V'è almeno una frase, negli scritti di Engels, che Freud avrebbe pienamente condiviso: «La mutua tolleranza dei maschi adulti, cioè la libertà dalla gelosia, fu la prima condizione per la formazione di grandi gruppi permanenti.» Freud però, che conosceva le espressioni sia indirette che manifeste di tale gelosia, sarebbe stato più scettico di Engels circa la portata di questo superamento.

Siccome Freud e Marx sono i due uomini che hanno lasciato l'impronta più profonda in questa nostra epoca, non stupisce che si sia tentato di comparare e addirittura amalgamare le loro dottrine; possiamo ricordare il tentativo di Bartlett, quello di Eastman, di Jekels, di Jurinetz, di Kornilov, di Krische, di Marcuse, di Osborn, di Parkes, di Wilhelm Reich, di Sapir, di padre Schmidt e di altri ancora. Nel 1928, alla Riunione dei Medici Socialisti di Berlino, fu tenuto un vero e proprio dibattito sulla questione. Molti, e in particolare Bernfeld e Simmel, sostennero che psicoanalisi e marxismo non solo sono compatibili, ma si completano a vicenda; si levarono però alcune voci di critica alle vedute apparentemente non materialistiche di Freud. A noi non interessa il successo o il fallimento di tali tentativi; mi limiterò a citare le parole con le quali riassunse il confronto Bertrand Russell: «Non sembra probabile poter far risalire gli impulsi crudeli solo a cause economiche. Finché essi esistono, qualsiasi sistema che dà ad alcuni uomini il dominio sopra altri (come ogni sistema deve del resto fare) sarà passibile di diventare causa di sofferenza. Ne segue che, anche considerando solo grandi comunità, l'interpretazione esclusivamente economica costituisce una ipersemplificazione, e per una politica di saggezza sono indispensabili vedute maggiormente improntate alla psicologia.»

Più di una volta Freud parlò pubblicamente del proprio atteggiamento nei confronti del socialismo marxista. Un capitolo de Il futuro di un'illusione (1927) inizia con queste parole: «Dapprima fummo tentati di vedere l'essenza della cultura nelle risorse materiali esistenti e nei loro sistemi di distribuzione. Ma avendo scoperto che ogni civiltà si fonda sul lavoro coatto e sulla rinuncia agli istinti, ed evoca quindi inevitabilmente un'opposizione da parte di coloro ai quali ciò viene imposto, è ormai chiaro che le stesse risorse, i mezzi per acquisirle e i loro sistemi di distribuzione non possono costituirne le caratteristiche uniche ed essenziali: le minacciano infatti lo spirito di ribellione e il furore distruttivo dei membri della civiltà: le misure coercitive e le altre misure tendenti a riconciliare l'uomo con la civiltà e a ricompensarlo dei suoi sacrifìci. Queste ultime possono definirsi come la sfera psichica di una civiltà.»

Ne II disagio nella civiltà, del 1930, Freud scrive: «I comunisti credono di aver trovato un modo di liberarci da questo male. L'uomo è sinceramente buono e ben disposto verso il prossimo, dicono, ma il sistema della proprietà privata ne ha corrotta la natura... Se si abolisse la proprietà privata, se tutti i beni fossero in comune e se a tutti fosse concesso di condividerne il godimento, scomparirebbero nell'uomo la malvagità e l'inimicizia... Io non sono in grado di indagare se questa teoria si fonda su un'illusione insostenibile. Abolendo la proprietà privata, si priva l'aggressività umana di uno dei suoi strumenti, senza dubbio tra i più forti anche se non il più forte. Così facendo non si cambiano affatto le differenze di potere e d'influenza individuali che l'aggressività volge a proprio uso, né si muta in aicun modo la natura dell'istinto. Tale istinto non è sorto come risultato della proprietà: esso ha regnato in modo quasi assòluto nei tempi primitivi, quando le cose possedute erano ancora molto limitate, e si manifesta già nella prima infanzia quando gli averi hanno a mala pena cominciato a delinearsi.» Tre anni dopo, nelle Nuove lezioni introduttive alla psicoanalisi, Freud dedica all'argomento varie pagine, alle quali possiamo rimandare il lettore. La linea che seguono è analoga. Nel suo ultimo libro Mosè e il monoteismo troviamo la seguente frase, che mi sembra esprimere perfettamente le di lui convinzioni; «Quale profanazione della grandiosa multiformità della vita umana commetteremmo qualora considerassimo come unici motivi quelli derivanti da necessità materiali!»

Nel 1937 R. L. Worrall rinfacciò a Freud l'affermazione che il marxismo attribuisca i cambiamenti sociali solo a forze economiche, e gli fece presente che Marx e Engels hanno ammesso che la loro analisi  del  ruolo sostenuto dai fattori economici non esclude l'azione di fattori psicologici: omise però di aggiungere che in pratica questa ammissione si è dimostrata solo una questione di parole. Ecco un brano della lettera piena di modestia con la quale gli rispose Freud: «So che i miei commenti sul marxismo non rivelano né una conoscenza approfondita né una comprensione esatta degli scritti di Marx e di Engels. Ho imparato poi, con una certa soddisfazione, che né l'uno né l'altro hanno negato l'influenza dei fattori dell'Io e del super-Io. Questo inficia il principale contrasto tra marxismo e psicoanalisi, che credevo esistesse. Quanto alla "dialettica", non ci ho visto più chiaro neanche dopo la Sua lettera.»

Richiesto dalla Lega delle Nazioni, Freud tenne un interessante dibattito con Einstein a proposito dell'abolizione della guerra, nel quale giunse a una conclusione meno pessimistica di quanto ci si sarebbe potuto attendere. L'esperienza della prima guerra mondiale aveva definitivamente estinto ogni residuo di quell'ardore militare che Freud aveva provato negli anni precedenti. «La guerra è la più grossolana antitesi dell'atteggiamento psichico impostoci dal processo di civilizzazione, e per questa ragione è nostro obbligo ribellarci ad essa: non possiamo assolutamente tollerarla più a lungo. Non è solo un ripudio intellettuale ed emotivo: noi pacifisti abbiamo un'intolleranza costituzionale per la guerra, un'idiosincrasia ampliata - per così dire - al massimo grado. L'abbassamento del livello estetico, durante la guerra, influisce sulla nostra ribellione quasi quanto le crudeltà che in essa si commettono.

Fino a quando dovremo aspettare che il resto dell'umanità diventi anch'esso pacifista? Non si può dire. Ma potrebbe non essere un'utopia sperare che questi due fattori, l'atteggiamento culturale e il giustificato orrore delle conseguenze di una guerra futura, possano abbreviare il tempo che servirà a por fine a ogni minaccia di guerra.»

Questo veniva scritto l'anno prima dell'avvento di Hitler al potere. Freud visse fino a vedere lo scoppio di un'altra guerra; se ne avesse fatto l'intera esperienza, il suo orrore non sarebbe che cresciuto.

Sulla questione se una conoscenza più diffusa della psicoanalisi possa incrementare un'organizzazione più soddisfacente della società, Freud si dimostra cauto come al solito: «Se l'evoluzione di una civiltà presenta una somiglianza così profonda con lo sviluppo dell'individuo, e se in entrambi i processi vigono gli stessi metodi, non sarebbe forse giustificato diagnosticare che molti sistemi di civiltà son diventati "nevrotici" sotto la pressione dei sistemi di civilizzazione? Alla dissezione analitica di tali nevrosi possono seguire delle raccomandazioni terapeutiche di possibile interesse pratico. Non direi che un simile tentativo di applicare la psicoanalisi alla società civile debba essere solo immaginario o destinato ad esser sterile. Ma... malgrado tutte queste difficoltà è probabile che un giorno qualcuno si avventurerà in questa ricerca sulla patologia delle comunità civili.» Nessuno si è assunto finora questo compito, ma uno psichiatra americano, Alex Comfort, ha compiuto il lodevole tentativo di iniziare uno studio psichiatrico dei problemi di governo e della personalità dei governanti. Lo stesso Freud aveva suggerito che bisogna dedicare più attenzione di una volta «all'educazione di una categoria superiore di uomini dalla mentalità indipendente, non proni all'intimidazione e solleciti fautori della verità». Più volte espresse il parere che la nostra mancanza di libertà di pensiero deriva in gran parte dalle restrizioni che i nostri sistemi educativi ci impongono nei campi della religione e della sessualità.

Thomas Mann, la cui posizione di pensatore è indubbiamente importante, si dimostra molto più ottimista circa il valore che la società attribuirà in futuro alla psicoanalisi. Discutendo l'opera di Freud, scrisse: «E non meno fermamente credo che un giorno riconosceremo nell'opera di Freud la pietra angolare dell'edificio di una nuova antropologia, e perciò di una nuova struttura alla quale oggi si stanno apportando diverse pietre, che costituirà il ricettacolo futuro di un'umanità più saggia e più libera. Questo medico-psicologo, non ne dubito, sarà onorato come il pioniere di un umanesimo futuro che noi intuiamo oggi confusamente e che recherà l'impronta di esperienze ignote all'umanesimo di ieri. Sarà un umanesimo che avrà rapporti diversi con le potenze del mondo inferiore, dell'inconscio, dell'Es: rapporti più arditi, più liberi, più sereni, che produrranno un'arte più matura di quanto non possa fare il nostro mondo nevrotico, dominato dalla paura e dall'odio... Chiamatelo, se volete, l'utopia di un poeta, ma dopo tutto non è impensabile che la soluzione della nostra grande paura e del nostro grande odio, la loro conversione in un diverso rapporto con l'inconscio, che sarà quello più proprio dell'artista, più ironico e non per questo necessariamente irriverente, potranno essere un giorno dovuti proprio agli effetti curativi di questa scienza.» In altra occasione dice della psicoanalisi: «Sono sinceramente convinto che essa sia una delle grandi pietre basilari di una strutturazione del futuro che sarà abitacolo di un'umanità libera e cosciente.»

In un libro meditato di recente pubblicazione, Herbert Marcuse motiva più concretamente di Thomas Mann la speranza nello sviluppo di una civiltà più matura della nostra. Facendo un'attent'a distinzione tra quelle che chiama le repressioni fondamentali o primarie, forse ereditarie, e le repressioni «supplementari» generate dalle influenze sociali, Marcuse fa notare che le prime si sono instaurate in gran parte quando dominava la nuda lotta per l'esistenza, e che in un'età di maggiore prosperità e sicurezza ci si può aspettare che esse vadano gradualmente modificandosi. Allora le restrizioni imposte dalla società cederanno considerevolmente, pur senza raggiungere mai la libertà assoluta: la libertà sarà riservata alla sfera dell'arte.

Sull'avvenire della società Freud si espresse sempre in un tono di moderato ottimismo. Ne Il disagio della civiltà (1930) scrive: «Possiamo supporre che nel corso del tempo la civiltà subirà dei cambiamenti in modo da divenire più consona ai nostri bisogni e non più passibile dei rimproveri che le abbiamo mossi. Forse però ci abitueremo anche all'idea che esistono determinate difficoltà inerenti alla natura stessa della civiltà che non cederanno a nessun tentativo di riforma.»

Quando il disastro economico abbattutosi allora sul mondo civile raggiunse l'acme, a conclusione del suo libro Freud scriveva queste parole piene di speranza: «Ed ora possiamo attenderci che l'altra delle due "fòrze celesti", l'eterno Eros, eserciti il suo potere, per mantenersi alla pari del suo altrettanto immortale avversario.» Quattro anni più tardi (quando Hitler si fu impossessato del potere) nel rivedere il libro Freud aggiunse questa frase: «Ma chi può predire se vincerà e quale sarà l'esito della lotta?»